Italia Settentrionale

 

PER APPROFONDIRE…

Area Settentrionale e Nordorientale

La storia delle strutture manicomiali dell’Italia settentrionale e nordorientale si muove parallelamente alle vicende politiche italiane, mostrando una linea di continuità tra Stati e politiche assistenziali sia nei criteri di intervento che per quanto riguarda i momenti di crisi e cambiamento. Si è caratterizzata, per lungo tempo, dall’assenza di un modello tipologico uniforme e dalla logica del “riuso”, che prevede la riconversione di edifici già esistenti ad uso manicomiale adattati e progressivamente ampliati nel corso del tempo.  

I primi tentativi di regolamentare la collocazione fisica dei malati di mente si manifesta alla fine del XVI secolo con la creazione degli Ospizi di Carità, affidati alla pietas degli ordini religiosi al fine di ricondurli al “vivere civile” attraverso la riabilitazione fisica e morale, affidata al lavoro coatto e alla pratica religiosa obbligatoria. La  nascita di questi istituti si configura unicamente come soluzione a problemi di ordine pubblico e sicurezza sociale; in una logica di “internamento” ed esclusione del folle che si riflette anche sulle scelte architettoniche, pensate e indirizzate entro un’ottica di tipo custodialistico.

La necessità di creare una nuova tipologia di edificio, al passo con i dettati della scienza medica, si manifesta solamente a partire dal 1800, con l’affermarsi, seppur con modalità incerte e progressive, di nuove istanze di carattere clinico e assistenziale che cambiano il volto delle strutture manicomiali, sia da un punto di vista funzionale che amministrativo-gestionale. Con una nuova attenzione alla coerenza tra edificio e funzione, infatti,  questo porta ad una sorta di osmosi tra medico e ingegnere-architetto, protagonisti in prima linea nella scelta del sito, nella pianificazione strutturale dell’edificio finalizzata alla cura, e nell’amministrazione e organizzazione gerarchica interna, sotto la guida dell’alienista.

Un approccio di tipo clinico che tuttavia si esaurisce in un’organizzazione classificatoria delle diverse malattie mentali riflessa nella distribuzione spaziale, lasciando praticamente immutato l’approccio alla cura del malato. L’esigenza di contenimento e isolamento del paziente, infatti, prevale ancora nettamente sull’individuazione di possibili terapie o metodi di cura. A confermare il radicamento di questa tendenza sono i modelli di riferimento delle strutture stesse e la propensione a collocare i manicomi fuori dal perimetro urbano.

L’assenza di un modello tipologico di riferimento e l’utilizzo di molteplici linee di intervento sono al centro del dibattito, lungo e mai completamente risolto, che vede protagonisti i maggiori alienisti del periodo per  tutto il corso del XIX secolo. Tuttavia pur non essendo possibile individuare una struttura architettonica univoca e definita, i manicomi dell’Italia del nord mostrano alcuni punti in comune riferibili agli elementi che la costituiscono come: la presenza di recinzione dell’intero complesso, la separazione tra i sessi, la scarsa distinzione tra pazienti curabili e non, la presenza dell’infermeria e della sala per l’osservazione, la presenza di edifici isolati per ogni grado o tipo di follia, la prevalenza dei dormitori sulle singole celle, e la presenza gli ampi spazi verdi e aree consistenti per la coltivazione agricola.