Italia Meridionale

 

PER APPROFONDIRE…

Italia Meridionale: un’Italia a due velocità

Bibliografia di riferimento:
Cettina Lanza, Da convento a villaggio: i manicomi del Mezzogiorno continentale tra progetti e realizzazioni, in I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, 2013.

Già al 1918, nel volume di Tamburini, Antonini e Ferrari, è possibile notare come la concentrazione dei manicomi nel Regno d’Italia sia maggiore nelle regioni settentrionali e si diradi progressivamente scendendo verso sud, fino ai rari impianti del Mezzogiorno.

Eppure la storia dell’architettura manicomiale nel Mezzogiorno inizia nel 1813 con la fondazione della Real Casa dei Matti di Aversa, meta d’obbligo dei viaggi d’istruzione medica per il suo moderno impianto amministrativo di matrice francese. Ad Aversa, si prende a modello gli edifici transalpini e si costruisce lontano dal centro abitato, in linea con la direttiva di decompressione del centro a favore della periferia, promuovendovi istituzioni educative e assistenziali dipendenti dal Ministero dell’Interno. Nonostante la scelta non risulti essere delle migliori, sia per il clima umido, sia, soprattutto, per gli spazi angusti dell’ex convento della Maddalena, lo stabilimento assume una valenza rappresentativa: viene inserito nelle guide turistiche come “luogo celebre” vicino a Napoli.

Nel 1845 in occasione del VII Congresso degli Scienziati Italiani, Francesco Puoti si dilunga sugli stabilimenti aversani, menzionando i metodi di cura tramite il lavoro nei campi e descrivendo la pianta e l’articolazione degli ambienti.
Gualandi, invece, aveva notato le carenze strutturali del manicomio durante la sua visita nel 1822 e propone una lettura delle cause di una fama europea, a suo dire, immeritata. Gran parte della celebrità della Real Casa dei Matti di Aversa viene attribuita al direttor Giovanni Maria Linguiti, che fonde insieme sapientemente intenti filantropici alle visite dei forestieri e a una strategia di consenso operata attraverso le belle parole dei giornali. La notorietà del manicomio della Maddalena nasce e resta legata ai metodi di trattamento morale praticati, in grado di offuscare l’inadeguatezza della sede contro cui già Linguiti nel 1817 protestava, sollecitando un trasferimento nei grandi complessi presenti a Napoli e dintorni.

Nonostante o grazie ai limiti architettonici, Aversa diviene luogo di sperimentazione circa la ricerca di una tipologia asilare: nel Progetto di ampliamento e restauro del Real Morotrofio della Maddalena del 1856, l’architetto Nicola Stassano espone il suo concetto di Casa degli alienati, sulla base dei più apprezzati esempi europei. Propone un sistema a corti quadrangolari modulari e in grado di inglobare la costruzione preesistente.

L’impostazione essenziale del progetto viene recuperata anche nel 1861 nel Programma di un manicomio italiano di Biagio Miraglia e Stassano.

Vincenzo Leonardo Cera nel 1863 realizza con l’architetto Francesco Paolo Capaldo dei progetti teorici, tra cui quello dell’Ospedale Clinico per le malattie della mente, destinato ad accogliere i malati cronici della Maddalena. Il manicomio, inteso non solo come luogo di ricovero e di cura ma anche come centro di studi, voleva essere ispirato ai modelli europei di Francia, Inghilterra, Prussia, Belgio ma anche America; si traduce invece come assemblaggio regolare e simmetrico di corpi edilizi, intramezzati da corti con portici di comunicazione e gallerie coperte e riscaldate per la deambulazione dei degenti. Ai reparti e servizi si integra la sala per le cattedre, con la biblioteca e i gabinetti patologico e fisico-chimico, affiancata da ambienti a doppia esedra con il gabinetto anatomico ed elettroterapico. Sono presenti anche ambienti per le attività ludiche (musica, biliardo, esercizi ginnici) ma in minor numero perché Cera era contrario alle forme di trattamento morale impiegate ad Aversa e le riserva solo ai convalescenti; esclude anche il lavoro agricolo che viene sostituito da ambulacri alberati e giardini interni. Per Cera, infatti, il manicomio doveva sorgere in città per attirare la nuova gioventù medica e formare la nuova generazione di alienisti.

Già durante il regno di Francesco I (1825-1830) si pensava di realizzare un manicomio urbano sull’esempio della Real Casa dei Matti di Palermo, nei locali del convento soppresso di San Francesco di Sales, poi scartata per problematiche ambientali. A Sales, quasi cinquant’anni dopo, viene fondato il primo manicomio provinciale di Napoli, su progetto di Giuseppe Buonomo e l’ingegner Francesco Saverio Suppa: è un parallelogramma ripartito in corti simmetriche rispetto alla spina centrale dei servizi che, inizialmente, non guarda alle novità europee come il sistema francese a padiglioni staccati, vicino al manicomio di Imola.

Dopo il blocco dei ricoveri ad Aversa, il sovraffollamento negli altri manicomi non permette la sperimentazione tipologica: nonostante gli impianti siano concepiti in stretta collaborazione tra alienisti e tecnici, informati su esempi italiani e stranieri, questi sono costretti ad adattare il progetto alle strutture conventuali (come a Girifalco presso Catanzaro, a Nocera e Lecce), o in stratificati contesti urbani (Teramo).

L’occasione per sperimentare la tipologia asilare arriva quando la Deputazione provinciale napoletana delibera di abbandonare i recuperi degli edifici già esistenti per avviare la costruzione ex-novo di un manicomio-modello. Se durante II Congresso della Società Freniatica Italiana del 1877, ad Aversa, si denunciavano le carenze dei territori meridionali, cercando di promuovere la costruzione di manicomi di medie dimensioni, pochi anni dopo a Napoli si promuove un impianto per accogliere mille folli, riconfermando così la distanza tra centro e periferia, ricorrente nel Mezzogiorno.
Il progetto vincitore di Giuseppe Tango proponeva un sistema a padiglioni collegati da gallerie e bracci porticati, ripresi e aggiornati dagli edifici già esistenti di Imola e Voghera; il ritardo di oltre vent’anni nella costruzione, sminuisce la portata della soluzione che risulta, al 1906, “un sistema pesante e costoso” rispetto all’idea di “Asilo snello, inondato di aria e di sole, verdeggiante ed operoso” e, quindi, necessitava già di un aggiornamento.

Non solo ad Aversa ma anche a Lecce, Girifalco, e Nocera era necessario aggiornare i modelli per gli ampliamenti delle strutture: nel manicomio di Nocera, sorto già con sistema misto, si cerca di creare un moderno impianto a villaggio, con una disposizione libera degli edifici nelle aree di espansione. A questo sistema si avvicinano anche i nuovi progetti per L’Aquila e Reggio Calabria, che però vedono ancora radicata l’idea della disposizione regolare e simmetrica degli edifici come strumento per ripristinare lo stato mentale degli alienati. Il manicomio di Potenza progettato da Giuseppe Quaroni e Marcello Piacentini è l’unico esempio che si discosta da un impianto bloccato con padiglioni connessi tramite gallerie: è cambiato in corso d’opera per necessità economiche, risultando molto lontano dal progetto originario, e prende le sembianze di un villaggio campestre perché i padiglioni assecondano l’accidentalità del suolo e non risultano quindi sullo stesso piano.

A inizio Novecento il dibattito sui modelli degli impianti asilari è molto attivo: Luigi Sylos – architetto che realizza un progetto per il manicomio di Bari che non verrà mai realizzato – riconosce come “sistema odierno di ogni costruzione ospedaliera” quello a padiglioni isolati. Sylos considera l’impianto di un manicomio come una tipologia speciale di costruzione che può essere sia a edifici staccati che edifici connessi: a quest’ultima soluzione si riconosce il vantaggio di semplificazione e rapidità del servizio ma anche lo svantaggio di un aspetto claustrale. Si tende quindi ad adottare una soluzione intermedia, limitando i portici di comunicazione ai tratti tra l’edificio di amministrazione e i servizi generali, lasciando i padiglioni staccati ma a distanze idonee alla sorveglianza.

Dopo il primo conflitto mondiale, le strutture manicomiali del Mezzogiorno si riducono ad un insieme di cantieri continui, dovuti all’aumento esponenziale dei malati.
Fanno eccezione le Case della Divina Provvidenza, private, che si estendono da Bisceglie a Foggia, Potenza e Guidonia, con progetti architettonici di Libero e Demetrio Martucci e di Marcello D’Olivo. Non si registrano significativi interventi di riuso degli ex impianti manicomiali dopo la loro chiusura, che spesso vengono demoliti (Reggio Calabria) o sono in stato di abbandono. Nel tentativo di reinserirli in un circuito utile alla comunità, alcuni edifici sono stati trasformati parzialmente e in modo disorganico, al contrario invece di numerosi esempi di recupero nelle altre regioni. Ancora una volta come nel 1918, si restituisce il quadro di un’Italia a due velocità.